Topic/Problem
Nel post precedente mi sono chiesto e ti ho chiesto: quale significato dai all’attività che più di ogni altra occupa il tempo di una vita adulta? Ecco la parola chiave: significato. Letteralmente, dal latino, “qualcosa che fa da segno”, quindi che indica e simboleggia. Ma simboleggiare cosa? Cosa “ci mettiamo dentro” nel nostro lavoro? A cosa “rimanda oltre a sé” quello che facciamo?
Prima o poi dobbiamo trovare una risposta personale, certo mutabile e in divenire, ma se non riusciamo a dare un senso a quello che facciamo, siamo condannati alla disperazione… o alla depressione (oggi il male dominante). Brutta storia.
Uno dice: guarda che non necessariamente ciò che facciamo deve avere un significato, si fa per abitudine o necessità o per mancanza di alternative. Ma è esattamente questo il punto della questione: siamo nella cosiddetta Age of Fullfilment, epoca della realizzazione, pienezza, a cui ognuno aspira, sia come individuo che come organizzazione. Non ci basta più che il lavoro ci dia da mangiare. E questo è davvero un gran problema: guarda tuo figlio, la nostra epoca gli ha messo in testa che lavoro e felicità non sono in antitesi, come pressoché sempre son stati. Noi stessi viviamo con questa speranza, o illusione, che in un qualche tempo o dimensione ciò che facciamo coincida con ciò che ci piace fare, che ci fa sentire realizzati.
Approfondimento
Esiste una scuola molto molto diversa dalle altre, una scuola che amo sconfinatamente, un’invenzione del geniale Alain De Bottom: la School of Life londinese
Nella sezione dedicata al lavoro troviamo il tema in oggetto: http://www.theschooloflife.com/london/shop/how-to-find-a-job-you-love-5/
Tra le pubblicazioni di interesse per il nostro topic, segnalo How to find fulfilling work di Roman Kraznic, che puoi trovare anche in ottima versione audiolibro https://itunes.apple.com/us/book/how-to-find-fulfilling-work/id577476830?mt=11
Se chiedi alle persone se sono felici del loro lavoro, mentiranno in ogni caso, sia che rispondano affermativamente sia che dicano I can’t get no satisfaction. Non perché siano false o infide, ma perché è una domanda troppo sfacciata e troppo profonda da porre. Riguarda le dinamiche della scelta, di cui purtroppo troppo poco ci occupiamo, come ci occupiamo poco della nostra anima, di cui lo scegliere è una facoltà.
Partiamo da questo assunto: NON SI PUO’ NON SCEGLIERE (riformulazione etica del watzlawickiano “non si può non comunicare” https://it.wikipedia.org/wiki/Assiomi_della_comunicazione ). E’ l’anima che percepisce e capisce (cognizione), è l’anima che sceglie (aut-aut), è l’anima che agisce (pragma). Ne deduco che anche rispetto al lavoro che svolgiamo è attivo un processo di percezione/cognizione, scelta, azione. Ovvero che ogni atto dello scegliere, così proprio del nostro essere dotati di anima, è in sé cognitivo e pragmatico.
Che vuol dire che non possiamo non “scegliere cognitivamente” nel nostro lavoro? Il senso del reale è per noi umani esito di un continuo giudicare, ovvero sottoporre l’esperienza concreta alla luce di un concetto, da cui emerge una intuizione, una conoscenza (ad esempio vedo un oggetto con una certa forma, lo confronto con un’idea geometrica e d’uso e solo alla fine ne ricavo il giudizio che è un tavolo). Questo processo cognitivo, riferito alla nostra esistenza lavorativa, si declina come segue: io faccio un certo lavoro, lo confronto con idee, schemi, valori e pre-giudizi presenti già nella mia mente/cuore, poi do un giudizio su quanto fatto. E’ quindi assolutamente decisivo capire di quali idee, schemi e valori stiamo parlando, perché infatti per uno stesso identico insieme di azioni tra due soggetti (es. entrambi impiegati con stesse mansioni nello stesso ufficio), uno potrà considerare il proprio lavoro bello, utile e gratificante, l’altro brutto, inutile e alienante.
Che vuol dire che non possiamo non “scegliere pragmaticamente” nel nostro lavoro? Ogni azione che intraprendiamo è esito di uno scegliere (faccio questo e così e non quello e cosà) e se non siamo consapevoli di ciò che facciamo e di come siamo arrivati lì e del perché e verso dove proseguiamo, semplicemente faremo male il nostro lavoro. Tante volte pensiamo di non poter fare-diversamente o che debba esser fatto così e solo così, ma altrettante volte siamo limitati dai nostri pre-giudizi considerati assiomi. Prigioni mentali. In cui ci rintaniamo e ci raccontiamo che non abbiamo vie di uscita. Ed effettivamente, posta così la questione, non vi saranno vie d’uscita, perché nessuna prigione è più invalicabile di quelle invisibili costruite dalla nostra mente.
Essere creativi al lavoro significa proprio questo: ri-creare costantemente quel giudizio su di sé, su quello che facciamo e come lo facciamo, per sentirsi LIBERI. Continuamente sfidare le nostre prigioni mentali, che tutti abbiamo, tutti. Ovvero diventare padroni delle scelte cognitive e pragmatiche che abbiam fatto, stiam facendo e faremo.
Quindi no, nulla è ineluttabile. Se lo fai, cerca di dirti che te lo sei scelto, che lo stai facendo nel modo che hai scelto e che lo farai secondo obiettivi che hai o avrai scelto.
SCEGLIERE, NON SUBIRE, decidere che lavoro fare, come farlo e perché farlo.
Strumento
Il “Life Plan” da compilare in ottica di forward-mapping, ovvero partendo dagli esiti lontani desiderati/desiderabili, per ricostruire backwards le scelte da prendere;
Guarda il video “How to Find Fulfilling Work”
Colonna sonora consigliata: Black – Wonderful Life